
L'Osservatore Romano
June 12, 2025 at 05:32 PM
L’esercito israeliano nei giorni scorsi ha bombardato pesantemente Khan Yunis. Alaa al Najjar, pediatra, che era al lavoro, ha perso nove dei suoi dieci figli. Suo marito è rimasto ferito ed è morto alcuni giorni dopo. Nella notte di mercoledì 11 giugno, Alaa e il suo unico figlio sopravvissuto, Adam, sono arrivati in Italia per ricevere cure mediche. Condivido queste parole sotto il loro sguardo.
In questo momento non c’è luce alla fine del tunnel in Palestina e Israele. I nostri governi sono composti prevalentemente da leader che sembrano non avere coscienza. E noi continuiamo a sprofondare nell’oscurità di un’epoca in cui non c’è speranza, né misericordia, né compassione. Quando cerco di allontanare questo senso di disperazione, mi sento come se stessi tradendo coloro che piangono i loro morti, i feriti, gli ostaggi e prigionieri, gli sfollati e i senzatetto, gli affamati, coloro che muoiono lentamente perché non ci sono medicine, coloro che sono rinchiusi in una realtà in cui l’orizzonte della speranza è stato chiuso, sostituito da un muro che proclama che non c’è via d'uscita.
Che cos’è la speranza nella mia vita di cristiano? Sono ben consapevole di ciò che la speranza non è. Non deve essere un oppio (Marx), parte della religione intesa come droga che anestetizza il desiderio di cambiamento. Non deve essere un’illusione nevrotica (Freud), immatura o psicologicamente malsana che volta le spalle al mondo, una proiezione di un desiderio immaginario. Non deve essere un’assurdità (Kafka), una fuga dall’inevitabilità.
Come cristiano devo affrontare la tragedia dei nostri tempi e la disperazione che essa genera. Se voglio essere solidale con coloro che sono in prima linea, non posso limitarmi a pronunciare parole di pietà, non devo voltare le spalle alla morte e alla sofferenza, nascondendo la testa sotto la sabbia come uno struzzo. Devo permettere a me stesso di essere esposto, vulnerabile e ferito.
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