Vita Consacrata
Vita Consacrata
February 15, 2025 at 01:17 PM
Da José Maria Castillo "L'umanità di Dio": "Nella religione di Israele il “sacerdote” (hieréus) è l’uomo che ha una relazione diretta con il “sacro” (hierós). I sacerdoti appaiono nella Bibbia dopo l’esodo dall’Egitto, soprattutto nel Levitico. Il termine originale kohén, come pensano alcuni specialisti, significherebbe “inchinarsi”. Ciò presuppone che il sacerdote è colui che si inchina davanti alla divinità e così, mediante l’adorazione, esercita la sua attività di mediatore. Ma l’idea più accettata è quella che presenta i sacerdoti di Israele come “rappresentanti della purezza e della santità dello stesso Yahvé”. In ogni caso, nel parlare dei “mediatori religiosi”, è importante sapere che nella religione di Israele, oltre alla mediazione del culto sacro e dei sacerdoti, è esistita ed ha anche operato in maniera decisiva la mediazione dei profeti e dei sapienti. Così nella religione di Israele la mediazione tra il popolo e la divinità è stata più frammentata e quindi meno accentrata, lasciando alla comunità credente più autonomia e quindi più libertà di pensiero e di decisione. Nel caso del cristianesimo, tuttavia, il problema fondamentale della mediazione religiosa è stato pensato, gestito e ha finito per organizzarsi in maniera molto diversa. E mi sembra importante porre l’accento su questo punto perché credo che si tratti di un problema decisivo. La Chiesa cattolica ha elaborato una teologia del potere e ha legiferato su questo tema in modo che tutto il potere di mediazione è stato concentrato nel sacerdozio, dal punto più alto della piramide, il papa, passando poi per l’episcopato, fino ad arrivare ai semplici presbiteri. Non esiste alcun’altra religione al mondo nella quale il potere di mediazione sia così concentrato in un gruppo relativamente ridotto di uomini, paragonato alla totalità dei fedeli. Ecco perché in nessun’altra religione al mondo il popolo credente deve accettare, come elemento costitutivo del suo credo, una condizione di sottomissione così forte come quella che si esige dai cattolici. Poiché la sottomissione a Dio è sottomissione a determinati uomini che possono chiedere conto persino delle questioni più intime della vita e della coscienza. Così s’intende, teologicamente e giuridicamente, la sottomissione dei laici ai presbiteri; di questi ai vescovi e i vescovi, a loro volta e secondo l’ordinamento del Diritto canonico, designati, controllati e sempre sottomessi al capo del collegio episcopale, il Romano Pontefice, che è inoltre il capo dello stato della Città del Vaticano. In questo modo i tre grandi poteri religiosi, quello di insegnare, santificare e governare, sono stati concentrati nelle mani di quelli che possiedono la potestà gerarchica: presbiteri, vescovi, papa (LG 24-26). L’aspetto determinante e più grave, in tutta questa questione riferita a Dio e alla crisi della fede in Dio che soffriamo oggi, sta nel fatto che questa “pienezza di potere”, plenitudo potestatis, secondo la formula apparsa già in Leone Magno17 e ampliatasi in maniera esageratamente ipertrofica nel secolo XII (a partire da Gregorio VII fino a Innocenzo III)18, non si riferisce né riguarda unicamente il regime di governo o dell’organizzazione istituzionale. La cosa più delicata e più dura di questa questione è che si tratta di un potere al di sopra della fede stessa delle persone e che quindi condiziona e determina il credo religioso in se stesso. Si tratta, di conseguenza, di un potere che ha la capacità di decidere quello che ogni cattolico può pensare o no, nel senso che deve considerare come vero e rifiutare come falso, come pericoloso, come eretico. Siamo perciò stesso di fronte a un potere che invade la mente, l’intimità della coscienza, la quale non ha altra soluzione – se vuole essere coerente con la fede in Dio – che sottomettersi in piena e perfetta obbedienza al pensiero e alla volontà di un altro uomo, che pensa e decide ciò che anch’io devo pensare e decidere, se voglio essere fedele a Dio. Secondo l’azzeccata formula coniata da Congar, a partire da Gregorio VII si consuma un’autentica mistica dell’obbedienza, secondo la quale “obbedire a Dio significa obbedire alla Chiesa e questo, a sua volta, significa obbedire al papa e viceversa”. Inoltre, con il passare degli anni questa mentalità – che è quella vigente nel governo della Chiesa – non si è indebolita ma al contrario, fino a raggiungere i suoi livelli più alti nei pontificati di Pio IX, nel secolo XIX, e di Giovanni Paolo II, nei secoli XX e XXI. Come è logico, se questa maniera di intendere la religione si prende sul serio e si abbraccia con tutte le sue conseguenze, quello che di tutto ciò ne consegue è che, per avere una buona relazione con Dio, la prima cosa da fare è arrivare ad un’autentica espropriazione mentale, cioè bisogna arrivare all’azione e all’effetto di spogliarsi e di perdere il possesso del proprio pensiero. Per pensare sui temi più seri della vita e del proprio comportamento, su questioni così fondamentali come possono essere le idee sull’amore, la famiglia, il sesso, il denaro, la politica; o su problemi così banali come può essere il semplice fatto di mettere o togliere un’immagine religiosa in un locale pubblico; in tutto questo (e in mille altre cose) la fede in Dio non ha altra via di uscita che smettere di vedere la vita come uno la vede, smettere di pensare come pensa molta gente normale e comune e assumere come proprie le idee che mi impone il parroco, il vescovo o, soprattutto, il papa.

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