HUMAN RELOAD - Outgrow your limits.
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May 14, 2025 at 05:16 AM
COERENZA CERCASI, ANCHE USATA. Nel mondo di oggi, comunicare chi sei come azienda è un po’ come cercare di fare un selfie su un treno in corsa: lo scatto viene sempre mosso, sfocato o con un riflesso indesiderato. L’Employer branding non è solo una pagina patinata su LinkedIn, è una promessa in diretta 24 ore su 24. E le persone – i dipendenti, i candidati, i clienti, i follower – quella promessa la confrontano con i dettagli: il modo in cui rispondi alle mail, come accogli un nuovo collega, cosa succede quando nessuno guarda. Viviamo in una bolla comunicativa costante, e ogni cosa che l’azienda dice (o non dice) può essere usata contro di lei… o a suo favore. Le aziende si trovano oggi su un crinale instabile: da una parte c’è la volontà di mostrarsi moderne, inclusive, sostenibili, agili, digitali. Dall’altra, c’è la dura realtà dei processi lenti, dei silenzi imbarazzanti, dei manager che non hanno ancora capito cosa significhi ascoltare. La coerenza è l’arte del funambolo in scarpe antinfortunistiche: vorresti danzare leggero, ma pesi come una cultura aziendale costruita in anni di «abbiamo sempre fatto così». In un contesto costantemente incerto, volatile e ambiguo, mantenere una narrativa aziendale lineare è impresa da eroi. Le aziende cambiano strategia ogni trimestre, ma il loro tono di voce resta spesso ancorato agli anni ’90. Il risultato? Un disallineamento semantico che si percepisce anche al microonde dell’open space. La schizofrenia comunicativa è uno sport aziendale diffuso. All’esterno, campagne da urlo: video motivazionali con musica epica, slogan sulla centralità della persona, storytelling emozionale degno di Pixar. All’interno, moduli Excel da compilare, feedback non richiesti e aggiornamenti sulle ferie via PowerPoint. Come si può costruire un employer branding credibile se l’ecosistema interno e quello esterno non si parlano? È come aprire un ristorante stellato con la cucina a vista… e poi cucinare in una mensa scolastica. Il disincanto è inevitabile. Caso emblematico? Amazon. All’esterno, Amazon è un colosso dell’innovazione, del customer obsession, della logistica impeccabile. All’interno, i racconti di alcuni ex magazzinieri su condizioni di lavoro discutibili e algoritmi che ti licenziano con un click creano uno scollamento difficile da ignorare. L'employer branding qui si basa sull’efficienza, ma rischia di trasformarsi in un boomerang se non c’è cura autentica per chi tiene in piedi quella macchina. Cosa possono fare le aziende sane (senza farsi venire l’orticaria) - Raccontare l’imperfezione: dire “non siamo perfetti, ma ci lavoriamo” è molto più potente del millantare eccellenze ovunque. - Coinvolgere le persone vere: basta testimonial finti. I dipendenti reali raccontano meglio, anche con tutte le loro esitazioni. - Misurare la coerenza: creare indicatori che confrontano quanto comunicato con quanto realmente percepito. - Favorire il dissenso costruttivo: creare canali dove le persone possano esprimersi senza timore di ritorsioni. - Rivisitare il tono di voce: non serve essere brillanti, ma autentici. Meglio un tono umano che una frase da spot. Il rapporto tra azienda e persona (dipendente o candidato) non è più basato su aspettative unilaterali. È una relazione, fatta di fiducia, ascolto, limiti e contraddizioni. Il nuovo employer branding non è una campagna, è una conversazione continua. E in quella conversazione, l’azienda non deve per forza avere sempre ragione. In un mondo instabile, l’unica coerenza sostenibile è quella che include l’evoluzione. Le aziende devono iniziare a dire: "Siamo cambiati, ecco perché". Ammettere l’incoerenza temporanea è un atto di maturità. Rende più credibili, non meno. Cosa mettere in pratica domani quindi? Le aziende potrebbero iniziare aprendo la comunicazione interna anche agli occhi esterni, rendendo accessibile il magazine aziendale ai candidati in cerca di un segnale autentico. Una buona abitudine sarebbe quella di creare un vero e proprio "diario di bordo" aziendale: una sintesi trimestrale dei cambiamenti avvenuti, con le relative motivazioni. Un altro passo utile sarebbe introdurre la figura del "custode della coerenza", un ruolo trasversale incaricato di monitorare e allineare il racconto aziendale. E, infine, forse la cosa più rivoluzionaria di tutte: smettere di celebrarsi a ogni occasione e iniziare, più semplicemente, a spiegarsi. La verità aziendale è come una scrivania il venerdì pomeriggio: disordinata, stanca, segnata da post-it caduti, appunti a penna sbiaditi, tazze sporche e fogli dimenticati sotto le tastiere. Ma se ci guardi bene, contiene le tracce di ciò che sei davvero: i dettagli non filtrati, i gesti ripetuti ogni giorno, gli errori che si trasformano in stile. Le persone non cercano aziende perfette e immacolate come nelle brochure. Cercano luoghi dove l’imperfezione venga accolta, riconosciuta, trattata con rispetto – non nascosta sotto un tappeto di frasi fatte e stock images con gente che ride senza motivo. Alla fine, il miglior employer branding è quello che sa raccontarsi anche nei momenti “storti”. È l’azienda che riesce a guardarsi allo specchio, magari un po’ appannato, senza dover aprire Photoshop, ma semplicemente soffiando via il vapore con il coraggio di chi sa che ciò che si vede… è davvero sé stessa.
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