
HUMAN RELOAD - Outgrow your limits.
May 26, 2025 at 10:48 AM
INTRAIMPRENDITORIALITÀ: ovvero quando il dipendente diventa (quasi) imprenditore.
Una narrazione pungente, affettuosa e molto concreta su come trasformare la routine aziendale in una fucina di iniziativa interna.
C'è una credenza diffusa, dura a morire, secondo cui il "buon" dipendente è colui che segue la linea, un'idea che affonda le sue radici nel modello organizzativo fordista e taylorista, dove efficienza e ripetibilità prevalevano sull'iniziativa personale, sta nel perimetro del suo ruolo e si limita a migliorare l'esecuzione. Ma oggi, in un mondo dove le slide strategiche invecchiano prima dei pomodori, serve un altro tipo di energia: quella dell'intraimprenditore. Non parliamo di eroi solitari, ma di persone che, pur rimanendo dentro le organizzazioni, sviluppano e fanno crescere idee nuove. In altre parole: hanno più progetti, ma non sono multitasker. Sono esploratori autorizzati.
Molti manager ancora confondono l'intraimprenditorialità con il multitasking. "Stai già seguendo due cantieri, figurati se ti autorizzo a partire con un terzo progetto!". Peccato che quei progetti laterali non siano dispersione, ma fertilizzazione incrociata. Lavorare su più fronti permette di generare soluzioni fuori dallo schema del ruolo, evitare la noia (il vero costo nascosto), allenare la capacità di leggere segnali deboli. L'intraimprenditorialità non è caos. È un modo per trasformare un team di esecutori in una rete viva di persone, come suggerisce la teoria delle organizzazioni fluide e dei network adattivi, che valorizza la collaborazione distribuita e l'interconnessione dinamica tra individui che, insieme, costruiscono futuro.
L'intraimprenditore è curioso come un bambino con le mani nei LEGO. Non si accontenta del "si è sempre fatto così". Non ha bisogno del timbro, ma apprezza un feedback vero. Ha coraggio, ma non incoscienza. È mosso da senso di impatto, non da carriera. Soprattutto, ha bisogno di un ambiente che non gli chieda continuamente "dove sei arrivato?", ma piuttosto: "cosa hai imparato finora?"
Quando non funziona, i motivi sono spesso ricorrenti. Il primo è il paradosso della libertà apparente: si dichiara apertura, ma poi tutto deve passare da comitati e approvazioni. Il secondo è l'effetto hobby: si trattano i progetti laterali come "passatempi". Così li si svuota di valore. Il terzo è l'invidia funzionale: alcuni ruoli godono di più libertà innovativa di altri. Risultato? Malumori e passività.
Molte imprese si raccontano ancora come se fossero templi della coerenza: mission, vision, valori, purpose. Poi basta parlare dieci minuti con un dipendente per scoprire che la realtà è più complessa. Non necessariamente peggiore, solo più umana. Ed è qui che si apre la sfida: oggi i talenti non cercano aziende perfette, ma aziende vere. Che dichiarano le loro contraddizioni. Che ammettono che stanno imparando. Che condividono anche le versioni beta di sé stesse.
Un'organizzazione che coltiva intraimprenditorialità diventa un ecosistema, secondo l'approccio sistemico ed ecologico delle organizzazioni, e non più un impianto a circuito chiuso. È aperta all'imprevisto, alla proposta inattesa, all'energia che arriva dai suoi stessi corridoi. E soprattutto, diventa credibile. Perché la credibilità oggi non si gioca sulla coerenza impeccabile, ma sull'onestà narrativa: mostrare i piani, ma anche i ripensamenti. Condividere le priorità, ma anche le difficoltà. Dare spazio alle persone, non solo ai processi.
In sintesi? Le aziende che sopravviveranno non saranno le più strutturate, ma quelle capaci di esprimere una resilienza organizzativa autentica, fondata su capacità di adattamento continuo, secondo i modelli di apprendimento dinamico e complessità sistemica, ma quelle che sanno reinventarsi grazie alla loro linfa più preziosa: le persone che osano anche dove non è (ancora) previsto.

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