
HUMAN RELOAD - Outgrow your limits.
June 3, 2025 at 05:26 AM
TRANQUILLO, AL MEETING PARLO IO (tanto so già cosa vuoi dire).
Nel complesso ecosistema delle aziende moderne, dove ognuno interpreta il proprio ruolo tra piani strategici, performance review e riunioni che sembrano talk show infiniti, si aggira una figura relazionale spesso trascurata ma molto presente: il capo overcaring. È quel leader che, con un eccesso di premura, finisce per dimenticare che il collaboratore è un adulto capace di pensiero autonomo. Questo testo è per loro. E per chi ci finisce sotto.
Ci hanno insegnato che un buon capo si prende cura del proprio team. Che ascolta, supporta, guida. Ma dove sta il confine tra cura e controllo, tra supporto e sostituzione? Quando il capo, invece di creare lo spazio per la crescita del collaboratore, lo invade con la dolcezza di una nonna col maglione di lana in agosto, qualcosa si incrina. Frasi come: "Secondo me dovresti accettare quel progetto, fa bene alla tua carriera", oppure "Io, al posto tuo, parlerei subito con il cliente così", o ancora "Dai, ti ho già prenotato il corso, poi mi ringrazierai", suonano premurose, ma nascondono un sottotesto preciso: non mi fido che tu sappia decidere da solo.
Il collaboratore, lusingato, entra in un vortice di dipendenza. Perché di fronte all'incertezza, l'essere umano tende a cercare figure protettive. Ma attenzione: il confine tra "protettivo" e "manipolativo" è sottile come la linea che separa la coccola dal soffocamento.
Quando il capo si comporta come un genitore ansioso, il collaboratore smette di crescere. Entra nella parte del figlio che non può disobbedire, perché ogni scelta è già stata anticipata, confezionata, magari pure impacchettata con un bel fiocco motivazionale. E così il capo pensa per due. Decide per due. Vive per due. Convinto di esercitare la leadership. Ma quella non è leadership, è puppeting.
Un esempio lampante lo troviamo in un caso aziendale citato in un articolo di Harvard Business Review del 2022: in una giovane azienda tech americana in rapida crescita, con una cultura ancora in costruzione e forte pressione sugli obiettivi, un manager di medio livello, nel tentativo di "aiutare" i propri collaboratori più giovani, finiva per dare loro istruzioni precise su come parlare durante i meeting, cosa scrivere nelle mail, quando proporre idee. I collaboratori, inizialmente grati per la guida rassicurante in un ambiente competitivo, si ritrovarono in breve tempo incapaci di agire senza l'approvazione del capo. Il risultato? Un team brillante trasformato in una compagnia di marionette silenziose.
Il paradosso è evidente: il capo overcaring si illude di costruire fiducia, ma finisce per minarla. Perché nel momento in cui anticipi ogni decisione del collaboratore, gli stai dicendo che da solo non ce la può fare. E lui, magari inconsciamente, ti crede.
Con il tempo, succedono due cose: il collaboratore smette di assumersi rischi, tanto "ci pensa il capo"; il capo si convince di essere indispensabile: l'eroe della situazione.
Si crea così una relazione tossica, ma socialmente accettata. Anzi, in molte aziende è pure premiata: il capo viene celebrato per la sua "dedizione", il collaboratore per la sua "fedeltà". E via, un altro premio di team dell'anno.
Un buon coach non ti dice cosa fare. Ti fa domande, ti allena a pensare. Ti accompagna nell'incertezza, senza rubarti il volante. Ma il capo-overcaring non ha sviluppato questa capacità. E così, guidato da buone intenzioni (ma anche da un ego ben nutrito), confonde il coaching con il suggerimento travestito da consiglio. "Io farei così" è spesso un modo gentile per dire: "se non lo fai, stai sbagliando in partenza".
In una grande azienda europea, un direttore HR raccontava: "Nel nostro team avevamo un manager bravissimo tecnicamente, ma ogni volta che un collaboratore portava un'idea, lui la smontava dicendo 'guarda, meglio se fai così'. Dopo sei mesi, nessuno proponeva più nulla. E lui si chiedeva perché il team non fosse più proattivo."
Non sempre il collaboratore resta nella sua zona di comfort generata dall'overcaring. A volte si accorge che qualcosa non torna. Che la sua voce interiore si è abbassata. Che il senso di autonomia è evaporato. E allora, succede la rivoluzione. "Sai che c'è? Grazie dei consigli, ma questa volta voglio provare da solo." In quel momento il capo ha due scelte: sentirsi tradito e riprendersi la palla, o accettare che il proprio ruolo non è fare il gol, ma costruire il campo da gioco.
Immagina di essere su un'auto. Il collaboratore guida. Il capo è il navigatore. Ma invece di suggerire strade, il navigatore comincia a frenare, sterzare, accendere le frecce. Alla fine, chi guida? L'overcaring è questo: una disfunzione del ruolo, mascherata da zelo. Ma non è la presenza a rendere sicuri. È la fiducia.
Il mondo del lavoro non ha bisogno di capi-mamma o collaboratori-yes man. Ha bisogno di adulti che si confrontano, si ascoltano, si sfidano. Serve una nuova grammatica della relazione capo-collaboratore, dove il capo è allenatore, non regista, il collaboratore è co-protagonista, non esecutore, entrambi si allenano a domandare, più che a consigliare. Una relazione fluida, dove si cresce insieme. Dove ogni "secondo me dovresti" lascia spazio a un "cosa ti sta a cuore?". Dove il successo non è far fare le cose agli altri, ma vederli fiorire nella loro autonomia. In fondo, un buon capo non è quello che ti protegge da tutto. È quello che ti allena a camminare, anche quando la strada trema. E se ogni tanto sbagli, pazienza. Vuol dire che stai decidendo tu.
Ecco perché è fondamentale che le aziende inizino a premiare chi sa far crescere le persone, non chi le controlla con dolcezza. Perché la vera leadership non si misura nella quantità di decisioni prese al posto degli altri, ma nella capacità di far emergere il potenziale altrui.

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