
#musicadaleggere
May 13, 2025 at 04:28 PM
Lucy in the Sky with Dick: fantascienza lisergica e allucinazioni pop.
Nel panorama della cultura novecentesca, pochi intrecci risultano tanto sorprendenti quanto quello tra l’opera visionaria di Philip K. Dick e l’universo musicale dei Beatles. A un primo sguardo, le strade percorse dallo scrittore californiano e dal celeberrimo quartetto di Liverpool potrebbero apparire divergenti: l’uno immerso nelle pieghe angoscianti della realtà alternativa e dell’identità smarrita, gli altri artefici di una rivoluzione sonora e iconografica nel cuore della Swinging London. Eppure, scavando sotto la superficie, emergono risonanze profonde, quasi psicotropiche, che connettono i loro immaginari.
Philip K. Dick, cantore paranoide dell’inquietudine ontologica, ha spesso lambito, nei suoi romanzi, quelle stesse traiettorie di alterazione percettiva che la musica beatlesiana — soprattutto nella sua fase psichedelica — esplorava in chiave melodica. Non è un caso che “Ubik” (1969), forse la sua opera più enigmaticamente lisergica, venga pubblicata proprio quando i Beatles erano giunti all’apice della loro sperimentazione con “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band” e “Magical Mystery Tour”. Entrambi, pur muovendosi su media differenti, sembrano ispirati da una comune tensione a trasfigurare il reale, a decostruire i confini dell’io e a interrogare il senso del tempo e della memoria.
Una notte del 1969, questa convergenza iperuranica si materializza in una telefonata grottesca e surreale. Timothy Leary, lo psiconauta per eccellenza, chiama Dick da una stanza d’albergo in Canada. Con lui, steso sulla moquette, strafatto e in preda a una sorta di illuminazione pop, c’è John Lennon. Il beatle era in tournée. Ha appena terminato la lettura di “Ubik” - trascinato da un misto di entusiasmo e timore reverenziale che, nel senso greco del termine, sono ardori quasi indistinguibili. Lennon, con voce impastata e occhi dilatati, afferra la cornetta e biascica:
«È questo! Esattamente questo!»
Singhiozza, ringrazia. Per lui, Dick ha scritto il romanzo dell’acido, l’equivalente narrativo di Sgt. Pepper, e in particolare di quel brano diventato simbolo di un’intera epoca allucinata: “Lucy in the Sky with Diamonds”.
Il rapporto, tuttavia, non si limita a consonanze tematiche o telefonate visionarie. In “Valis” (1981), romanzo-fiume che amalgama autobiografia, teologia gnostica e fantascienza esistenziale, Dick introduce un personaggio — il cantante Eric Lampton, detto "Mother Goose". Lampton, come Lennon, è un artista pop capace di trascendere la musica per incarnare un messaggio quasi profetico, una voce cosmica. La musica, nel romanzo, diventa vettore di rivelazione: è attraverso una canzone che il protagonista coglie un’epifania sull'esistenza di una realtà nascosta, una verità “trasmessa” da un’intelligenza superiore.
Dick era ben conscio della potenza archetipica della cultura pop e la musica dei Beatles, nel suo universo narrativo, funge spesso da simbolo di un’epoca in bilico tra illuminazione e follia. In alcune lettere e interviste, egli allude alla "frequenza" che certe canzoni sembrano attivare — una vibrazione sottile che risuona con le strutture più profonde della mente. Per Dick, la musica beatlesiana non era mero intrattenimento, ma un codice cifrato, un frammento di quel “logos vivente” che, a suo dire, comunicava con lui attraverso sogni, visioni e coincidenze. Non sorprende, dunque, che lettori e studiosi abbiano spesso accostato la poetica dickiana alla semantica musicale dei Beatles: entrambi sembrano aver intuito che la realtà non è che una pellicola fragile, pronta a lacerarsi sotto l’urto di una domanda radicale. Dick cercava Dio nei circuiti del simulacro; i Beatles lo evocavano tra sitar e accordi sognanti. Entrambi, in fondo, hanno tentato di risvegliare l’uomo moderno dal torpore della sua illusione.
Nel frastuono della contemporaneità, dove tutto tende a disperdersi nell’effimero, l’incontro — o meglio, la consonanza — tra Philip K. Dick e i Beatles ci appare come un momento di rara alchimia culturale: l’autore paranoico e i Fab Four, ciascuno a suo modo, hanno saputo dar voce all’inquietudine del Novecento, componendo un’opera sinfonica sulla caducità del reale.
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