#musicadaleggere
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May 19, 2025 at 11:38 AM
Deborah Dawis, in “Andy Warhol 1963 — Destinazione Los Angeles”, concentra la lente su un anno cruciale dell’avventura warholiana, raccontandolo con taglio narrativo continuo e senza la scansione schematica di capitoli-dossier. Sin dalle prime pagine il lettore viene proiettato nel clima febbrile della West Coast: le insegne al neon lungo Sunset Strip, i magazzini di celluloide degli studios, i vernissage informali alla Ferus Gallery compongono una quinta scenica in cui Warhol percepisce, come un sismografo, la potenza iconica della cultura di massa. Dawis intreccia testimonianze d’epoca, note critiche e descrizioni dei lavori esposti (dal celebre Double Elvis alle prime tele della futura serie “Disasters”) senza mai interrompere il flusso; la sua prosa scorre con la naturalezza di un racconto di viaggio, e proprio per questo consente di cogliere in filigrana la posta teorica di quella trasferta californiana. Emergono, così, due assi portanti. Da un lato l’adozione definitiva della serigrafia che diventa per Warhol la grammatica perfetta per moltiplicare volti di divi, loghi, cronache nere. Dall’altro la presa di coscienza che in una città governata dallo star-system l’immagine è già realtà sovrana: Hollywood offre all’artista un campionario illimitato di simulacri da replicare, smontare, ricomporre. Dawis dimostra quanto questo bagno di “luce mediatica” abbia accelerato la metamorfosi della Pop Art da ironico strappo al canone a vera e propria riflessione sul consumo e sulla mortalità dell’icona; lo fa evitando sia l’agiografia sia il gergo accademico, preferendo un lessico limpido, che invita a leggere le tele di Warhol come se fossero fotogrammi di un film eternamente in loop. L’accento sull’importanza storica di Warhol è netto ma misurato: l’autrice ricorda come le sue lattine Campbell’s e i suoi Marilyn abbiano infranto la separazione tra “alto” e “basso”, portando il linguaggio pubblicitario nel museo e costringendo il pubblico a rinegoziare il senso stesso di originalità. Tuttavia, spiega anche che nel 1963 la Pop Art non è più soltanto celebrazione del glamour; attraverso la serie dei disastri stradali e dei ritratti funebri di Jackie Kennedy, Warhol fa affiorare il lato oscuro della riproducibilità, mostrando come la serialità mediatica anestetizzi persino la morte. Questo slittamento, argomenta Dawis, germina proprio dall’esperienza losangelina, dove la fabbrica dei sogni e quella degli incubi condividono la stessa autostrada di billboard. Il risultato è un saggio avvincente che unisce godibilità narrativa e precisione filologica. Senza appesantire con apparati enciclopedici, Dawis restituisce la temperatura emotiva di un momento irripetibile e, insieme, offre una chiave di lettura nitida sulla centralità di Warhol nella storia della Pop Art. Chi voglia capire come e perché l’artista sia passato dalle lattine alla “tragica serigrafia” troverà in queste pagine una guida che, con passo unitario e ritmo costante, accompagna dal primo incontro con la città-icona fino alla partenza, quando il pittore rientra a New York portando con sé un atlante visivo destinato a ridisegnare l’arte del secondo Novecento.
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