HUMAN RELOAD - Outgrow your limits.
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June 11, 2025 at 05:03 AM
DAL MITO AL MOTIVATORE DI CORRIDOIO. Ovvero cronache semiserie di leadership aziendale in cerca di autore. C'è stato un tempo, neppure troppo lontano, in cui il leader era una figura mitologica. Un misto tra il comandante Achab e Superman, lì dove la visione si confondeva con la solitudine e il carisma fungeva da luce guida nei momenti di tempesta. Siamo nel dopoguerra, un'epoca in cui le aziende si ricostruiscono con lo stesso spirito con cui si ricostruiscono i ponti e le città: mattone su mattone, ordine dopo ordine, decisione dopo decisione. E il leader? È l'uomo solo al comando, con lo sguardo fisso sull'orizzonte e il peso del mondo sulle spalle. Pensiamo a Enrico Mattei, capace di sfidare l’ordine economico mondiale con una visione e un telefono. O a Enzo Ferrari, che più che un imprenditore sembrava un artista tragico, innamorato della velocità e della perfezione. Jack Welch negli anni ‘80 ne è stato l’epigono perfetto: duro, brillante, accentratore. In un contesto economico dominato dalla deregulation, dalla finanziarizzazione dell'impresa e da una crescente ossessione per la performance, Welch incarnava perfettamente l'immagine del CEO risolutore, capace di trasformare General Electric in una macchina da guerra competitiva. Era il simbolo di un'epoca in cui la leadership coincideva con la capacità di tagliare, accorpare, ottimizzare e ottenere risultati visibili in tempi rapidi. La leadership era verticale, direttiva, maschia (nel senso più iconico del termine), e si basava su una promessa: io vedo ciò che voi non vedete, seguitemi. Era un modello adatto a un mondo semplice (o che si faceva finta fosse tale). Il mercato si muoveva come un treno su binari: serviva qualcuno che guidasse la locomotiva e nessuno metteva in discussione la direzione, al massimo si commentava la velocità. Poi, come sempre accade nei romanzi più avvincenti, arrivò il colpo di scena: le crisi degli anni ’70. Il primo shock petrolifero del 1973 fu come un pugno nello stomaco al sistema industriale. Le certezze si frantumarono, i piani quinquennali divennero oggetti vintage. I leader scoprirono che la sola visione non bastava: bisognava anche saper navigare nella nebbia. La complessità richiedeva nuove lenti, nuovi strumenti. Fu in questo clima che nacque il modello della leadership situazionale di Hersey e Blanchard. Finalmente qualcuno ebbe il coraggio di dire che una sola maniera di guidare non basta. Il leader diventa qualcosa di più simile a un regista che a un generale. Deve saper leggere il contesto, adattarsi ai livelli di maturità del team, essere ora direttivo, ora partecipativo, ora coach, ora delegante. La leadership diventa fluida, relazionale, contestuale. Il leader inizia a scendere dal piedistallo per entrare nella stanza. Arrivano gli anni ‘80, con i completi doppiopetto, il walkman e una nuova parola che inizia a circolare nei corridoi delle business school: trasformazione. Bernard Bass introduce la leadership trasformazionale, contrapposta a quella transazionale. Non basta più scambiare salari per prestazioni. Ora il leader deve ispirare, coinvolgere, elevare. Mentre il modello transazionale si limita a dire: “Fai questo e avrai quello”, quello trasformazionale sussurra: “Diventiamo qualcosa di più, insieme”. La leadership inizia ad assumere tinte spirituali, nel senso di una dimensione valoriale più profonda: non si tratta solo di guidare un team verso un obiettivo, ma di connettersi con il senso di ciò che si fa, di ispirare una visione che tocchi motivazioni personali e collettive, quasi a sfiorare la sfera dell'identità e dello scopo. L'azienda diventa il luogo della realizzazione personale, il leader una sorta di guida carismatica che attiva il potenziale delle persone. Ecco che l'efficacia non è solo questione di risultati, ma anche di significato. In altre parole, l'efficacia sostenibile nasce dalla convergenza tra l'interesse dell'individuo e quello dell'organizzazione: quando le persone si sentono coinvolte, apprezzate e allineate con un senso più ampio, la loro motivazione aumenta. E con essa, guarda caso, anche la produttività e la redditività. È un po’ come un motore ben oliato: se ogni ingranaggio gira con piacere, la macchina non solo va, ma va anche lontano. Con l'arrivo degli anni 2000, qualcosa cambia in profondità. Le organizzazioni diventano più piatte, i progetti più incerti, il cliente più esigente. È l’epoca dell’Agile, del design thinking, dei post-it colorati appiccicati alle pareti delle sale riunioni. Il leader diventa un facilitatore, un coach, un architetto di contesti favorevoli. Nasce e si diffonde la Servant Leadership: una leadership che non comanda, ma serve. Che non brilla da sola, ma accende gli altri. Come un motivatore di corridoio che non forza la crescita, ma sa quando offrire un post-it, un feedback o un caffè strategico al momento giusto. Amazon, ad esempio, nel suo famoso Leadership Principles include esplicitamente concetti come "Earn trust" e "Hire and develop the best". Anche Salesforce ha reso centrale la leadership a servizio nei suoi modelli organizzativi, valorizzando l'ascolto e l'empowerment dei team come leve strategiche. Queste aziende dimostrano come mettere le persone al centro non sia solo un vezzo retorico, ma un vantaggio competitivo concreto. Lì dove una volta si cercava l'eroe, oggi si cerca l'enabler. Non è più tempo di salvatori, ma di moltiplicatori. Oggi, nel mezzo del caos digitale, delle Generazioni Z e delle Great Resignation, la leadership è diventata una danza. Non più un passo solo, sempre uguale, ma una continua improvvisazione. Serve ascolto, empatia, lucidità strategica, capacità di stare nella contraddizione. E proprio da qui nasce la sfida più grande per le aziende: non tanto avere leader brillanti, ma creare ecosistemi in cui la leadership diffusa sia possibile. Dove ogni collaboratore possa sentirsi parte della costruzione del valore. Oggi, chi cerca lavoro o vuole restare in azienda non cerca più solo la busta paga o la scrivania vista open space. Cerca senso, coerenza, relazioni autentiche. E la leadership? Non è più un talento riservato a pochi eletti o un'aura che discende dall'alto. È un agito quotidiano, distribuito, condiviso. È un modo di essere, prima ancora che un ruolo. La vera svolta sta nel riconoscere che tutti, in un team, possono esercitare leadership. Non si tratta più di "avere il capo giusto", ma di essere immersi in un contesto che attiva la responsabilità diffusa. Se ben progettata, l'organizzazione non genera solo efficienza, ma consapevolezza. E con essa, capacità di guida, presa di iniziativa, orientamento al miglioramento. In un mondo di vetrine patinate, l'onestà è il nuovo sexy. Come quei ristoranti che ti dicono: “Serviamo solo quattro piatti, ma sono fatti con amore". Le aziende che dichiarano apertamente che la leadership non è un superpotere ma una pratica collettiva, imperfetta ma sincera, diventano nuove calamite per i talenti. Non serve più il leader con la bacchetta magica, ma un ecosistema che aiuti ognuno a trovare la propria voce e il proprio coraggio. E in fondo, la leadership oggi è proprio questo: non dire agli altri dove andare, ma creare le condizioni perché ciascuno trovi la propria direzione. Anche a costo di ammettere che, ogni tanto, ci si perde. Ma insieme.
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