
HUMAN RELOAD - Outgrow your limits.
June 16, 2025 at 07:06 AM
TUTTI VOGLIONO CAMBIARE, A PATTO CHE PRIMA CAMBI QUALCUN ALTRO.
Cronache dalla trincea del cambiamento aziendale.
Cambia tutto, purché nulla cambi. È il paradosso più elegante delle aziende: si parla di rivoluzione ma si agisce per restauro. Questa frase, apparentemente innocua, racchiude tutta l’ironia tragica delle trasformazioni aziendali moderne, dove il cambiamento si annuncia in power point e si nega nei comportamenti. Sembra la sceneggiatura non scritta di molte trasformazioni aziendali. Si annuncia il cambiamento come se fosse l’arrivo del Messia, si organizzano townhall, si preparano slide con titoli motivazionali, si ingaggiano consulenti dal curriculum lungo come la lista delle password dimenticate. Poi si gira l’angolo e… tutto è esattamente com’era. O quasi. Il badge è diventato digitale, la macchinetta del caffè ha il touch screen, ma il comportamento è lo stesso: riunioni inutili, decisioni rimandate, silenzi strategici e il solito “così si è sempre fatto”. Come quella volta in cui, dopo un’intera giornata di workshop sul decision making rapido, si è deciso di rimandare la scelta su una nuova piattaforma IT a ‘quando avremo più dati’, cioè mai. O quando si discute per settimane di empowerment e poi si aspetta il via libera del direttore anche per spostare una scrivania.
Perché accade? Perché il cambiamento, quello vero, quello che tocca il modo di pensare e agire delle persone, trova sempre un avversario subdolo e invisibile: la resistenza. Non quella dei film storici con i partigiani, ma quella quotidiana, fatta di piccoli sabotaggi, esitazioni, incertezze mascherate da buon senso. Tutti dicono “Sì, vogliamo cambiare!”, ma dentro pensano: “Speriamo che non tocchi proprio a me”.
Ogni organizzazione è una tribù, con le sue abitudini, i suoi riti, i suoi totem. Come il rito del lunedì mattina in cui ci si riunisce per un meeting in cui nessuno ha davvero qualcosa da dire, ma “si è sempre fatto così”. O il totem intoccabile della scrivania del fondatore, che anche se non c’è più da anni, resta lì come altare laico della cultura aziendale. E cambiare queste cose equivale, per molti, a una forma di morte simbolica. È come dire a qualcuno: da domani non sei più quello che pensavi di essere. E questo spaventa. Molto più di un taglio al budget o di un cambio di CEO.
La mente umana non è progettata per l’incertezza. Di fronte all’ignoto, attiva il pilota automatico: si rifugia nell’esperienza, nell’abitudine, in ciò che conosce. Questo meccanismo è stato descritto da decine di modelli psicologici e organizzativi: da Kurt Lewin con la sua tripartizione “scongelare-cambiare-ricongelare”, dove ‘scongelare’ significa rompere le abitudini esistenti, ‘cambiare’ introdurre nuovi comportamenti e pratiche, e ‘ricongelare’ stabilizzare il nuovo assetto affinché diventi il nuovo normale, fino a John Kotter e le sue otto tappe della trasformazione. O l’ADKAR, che sembra il nome di un robot, ma è un acronimo che parla di consapevolezza, desiderio, conoscenza, abilità e rinforzo.
Tutti strumenti utili, certo. Ma, come diceva un saggio collega: “I modelli sono come le mappe: servono per non perdersi, ma poi devi comunque camminare tu”. E qui casca l’asino: perché camminare, nel cambiamento, significa affrontare la paura.
Prendiamo il caso di un’azienda che ha annunciato con grande enfasi la sua trasformazione agile. Nuovi ruoli, nuovi processi, stand-up meeting ogni mattina. Dopo sei mesi, lo scenario: i project manager continuano a comportarsi da capi progetto vecchia scuola, i team attendono indicazioni top-down e lo stand-up è diventato una riunione di status report travestita. Agile, ma solo nel nome.
Oppure l’azienda che ha introdotto il lavoro ibrido, con l’obiettivo di favorire autonomia e responsabilizzazione. Risultato? I manager chiamano più spesso di prima per controllare se sei online. Il lavoro è diventato remoto, ma il controllo è rimasto presente.
O ancora il caso di una fusione: due culture da integrare, due mondi che dovrebbero convergere. Sulla carta, missione compiuta. Nella realtà, due sistemi che si ignorano cordialmente. Gli ex A e gli ex B si parlano solo se costretti. Il cambiamento è stato dichiarato, ma non incarnato.
La verità è che ogni cambiamento organizzativo passa da un cambiamento individuale. E ogni cambiamento individuale mette in crisi certezze, identità, comfort zone.
Cambiare significa dire addio a una competenza che ci faceva sentire forti, a un ruolo che ci dava sicurezza, a una routine che ci faceva sentire “a casa”. E allora scatta la difesa. La resistenza non è cattiva volontà, è sopravvivenza emotiva.
È l’impiegato che finge entusiasmo ma dentro pensa: “E se non sarò più all’altezza?”. È il manager che ostenta leadership ma teme: “Perderò il mio potere?”. È il team che sorride in plenaria ma in chat scrive: “Vediamo quanto dura stavolta”.
Ecco perché ogni cambiamento dovrebbe essere prima di tutto un percorso di accompagnamento. Un cammino di consapevolezza, ascolto, confronto. Servono meno slogan e più dialoghi veri. Meno slide, più storie. Meno direttive, più domande.
Serve aiutare ogni persona a riappropriarsi del proprio potere personale. In pratica, significa accompagnarla nel riconoscere di poter decidere, proporre, agire senza attendere istruzioni continue. Come ad esempio il middle manager che smette di chiedere conferme per ogni scelta operativa e inizia a guidare il team con iniziativa, oppure l’HR specialist che propone una nuova policy invece di aspettare che arrivi dall’alto. A capire che non è un ingranaggio da aggiornare, ma un protagonista da ingaggiare. Il passaggio è sottile ma fondamentale: da dipendente (che attende e subisce) a indipendente (che sceglie e agisce). Solo così il cambiamento smette di essere “qualcosa che ci piove addosso” e diventa “qualcosa che costruiamo insieme”.
C’è però un rischio. Le aziende che riescono davvero a far crescere persone consapevoli, autonome, non allineate per default, devono poi fare i conti con un’organizzazione che non può più permettersi la mediocrità.
Perché chi è risolto non obbedisce acriticamente. Chi ha vinto le sue paure non accetta più capi piccoli o obiettivi senza senso. Non sopporta più il capo che gestisce con micro-controllo e insicurezza, o i progetti lanciati solo per fare numero e senza impatto reale. Vuole interlocutori veri, senso nelle cose, direzioni che non cambiano con il vento delle mode manageriali. Chi ha preso possesso di sé pretende coerenza, visione, rispetto.
E allora sì, il vero cambiamento fa paura. Ma non a chi lo subisce. A chi lo guida.
Alla prossima pillola.

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